LA CAPORETTO DEL CALCIO ITALIANO
di Enrico Montermini
Il calcio in Italia è un fenomeno
così seguito che può essere definito lo specchio della società. Se questo è
vero, ciò che emerge dallo spareggio mondiale con la Svezia è imbarazzante. L’allenatore
della Ternana Sandro Pochesci, intervistato da Il Messaggero, ha messo il dito nella piaga: << Andiamo in
Svezia e ci facciamo pure menare. Oltre che siamo una squadra di profughi, ci
siamo fatti menare e adesso rischiamo di andare a casa. Se contro la Svezia
avessimo messo una squadra della nostra serie C, avremmo vinto. Una volta
l’Italia menava e vinceva. Adesso ci menano e piangiamo. A portare tutti gli
stranieri in Italia è successo questo, non c’è più un italiano che mena.
Andiamo in Svezia e ci menano. Siamo diventati tutti pariolini. Dobbiamo
cambiare le regole, le squadre Primavera sono fatte tutte da stranieri e dobbiamo
dire basta perché il calcio qui è fatto dagli italiani. Questo è il campionato
italiano, altrimenti andiamo a fare quello europeo e mondiale. Qui ogni mese
esce il nome di un oriundo da naturalizzare, e lo mettiamo dentro >>.
Certe cose non accadono per caso:
il pesce marcio inizia a puzzare dalla testa. Infatti in Italia la selezione
delle classi dirigenti funziona alla rovescia, premiando i mediocri e gli
attendisti e mettendo i bastoni tra le ruote agli individui più preparati e più
attivi. A comandare il calcio italiano oggi c’è un uomo come Tavecchio, che non
ha mai giocato a pallone in vita sua ed è il garante di interessi tutt’altro
che encomiabili. Per decifrare questi interessi basta fare i nomi dei suoi “grandi
elettori”: Lotito, Galliani e Ulivieri. Il primo è stato chiamato in causa negli
scandali del calcio-scommesse sia come presidente della Lazio che come
proprietario dell’Albinoleffe, ma ne è sempre uscito impunito: evidentemente ha
non pochi santi in Paradiso! È lui che controlla i voti delle serie minori e
del calcio dilettantistico all’interno della FIGC. Galliani è stato inquisito
per l’asta truccata dei diritti del calcio, che ha fatto rimettere miliardi di
euro al calcio italiano a vantaggio degli interessi di Mediaset e Sky. Qualcuno
dice che sia uscito di scena: io non ci credo e i rapporti mai chiariti di
Infront col Milan e con la Lega di Serie A autorizzano più di un sospetto. Ulivieri
è l’unico uomo di calcio del quartetto, ma il suo curriculum di allenatore
fallito non è affatto incoraggiante: bocciato dal calcio professionistico, si è
messo a far politica nell’Associazione Allenatori, che ha trasformato in un
feudo privato. Costoro sono padroni del calcio italiano e hanno fatto il vuoto
intorno a sé di tutti quei personaggi il cui prestigio e le cui competenze
sarebbero stati preziosi. Vi pare un caso che abbiano scelto Ventura come
commissario tecnico, quando Ancelotti vince ovunque vada? Vi pare un caso che
Capello collabori con la federazione russa e Lippi con quella cinese, mentre
nella federazione italiana sono stati banditi? I manager più capaci del mondo
del calcio devono trovare lavoro all’Estero, proprio come le migliaia di
giovani italiani laureati che ogni anno emigrano a Londra o in Australia in
cerca di futuro. Vedete come il mondo del calcio è lo specchio della società
italiana?
In Italia si persevera diabolicamente nel tradizionale modello di calcio mecenatistico pur avendo perso da parecchi anni i suoi mecenati. Fino alla metà degli anni Novanta la spina dorsale del calcio italiano era il vivaio. I club di Serie A potevano tesserare solo 3 stranieri ciascuno (2 in Serie B) e da loro ci si aspettava che facessero la differenza in campo. Poi arrivò l'apertura indiscriminata delle frontiere. I primi ad approfittarne furono i top team, che importarono calciatori di buon livello e di esperienza a prezzi invitanti. I club di provincia andarono immediatamente in difficoltà, perché la più importante voce dei loro bilanci era la vendita dei giovani più promettenti ai club maggiori. Questi club si adeguarono rapidamente iniziando a importare in quantità industriale giovani africani, slavi e sudamericani: tutti giocatori tecnicamente scarsi, tatticamente immaturi, ma forti fisicamente e già pronti a esordire nel calcio professionistico. Così abbiamo assistito a un'invasione di calciatori stranieri scarsi; e se per sbaglio uno tra loro emergeva, il club lo vendeva all'estero, dove pagavano meglio.
Tutto ciò accadeva e accade tuttora perché con poche decine di migliaia di euro si compra una mezza dozzina di giovanotti africani, mentre allevare un campioncino in casa costa caro. Emblematico è il caso del sedicenne Pietro Pellegri del Genoa, che la scorsa estate fu sul punto di trasferirsi all'Inter per 10 milioni di euro e altrettanti di bonus: alla fine ad Appiano Gentile preferirono investire quella cifra sul terzino Dalbert, che nemmeno è titolare fisso. Si potrebbero citare altri esempi. Mi viene in mente Mansour, nato a Reggio Emilia e quindi potenziale giocatore della nazionale di domani: nel 2015 entrava stabilmente nella prima squadra del Milan e il quotidiano inglese The Guardian lo inseriva nella lista dei 50 migliori under 16 al mondo. Sembrerebbe l'inizio di una promettente carriera e invece no: l'anno dopo il Milan lo vendeva al Siviglia per fare cassa. Il ragazzo, che oggi ha 19 anni, gioca nel campionato olandese e veste la maglia della nazionale marocchina: come dargli torto dopo che è stato scaricato dal calcio italiano? La gestione discutibile di questo campioncino a chi ha giovato, al calcio italiano o a quello marocchino? Parliamo di Simone Scuffet: titolare all'Udinese a 17 anni, convocato in nazionale a 18, finisce a fare la riserva di Karnezīs (comprato per 180.000 euro). Risultato? Karnezis gioca e diventa titolare nella nazionale greca, Scuffet non gioca ed esce dal giro dalla nazionale italiana: chi ci ha guadagnato in tutto questo, il calcio italiano o quello greco? El-Shaarawy, nato a Savona, esordisce in Serie A a sedici anni, esordisce in nazionale a 19 e nel 2012 viene inserito da Don Balòn e The Guardian nelle liste dei più forti under 21 al mondo: il Milan lo vende al Nizza per fare spazio a Niang. Chi ha guadagnato da tutto questo, il calcio italiano o quello senegalese? Mi si può rispondere che Pellegri e Mansour non hanno ancora dimostrato nulla oppure che Scuffet e El-Shaarawy non sono dei fuoriclasse: ma sono forse dei fuoriclasse Dalbert, Karnetiz e Niang?
Se dal 2005 a oggi il calcio italiano non è stato capace di produrre calciatori all'altezza della sua tradizione, è perché il calcio è lo specchio della società italiana: abbiamo decine di migliaia giovani laureati e centinaia di migliaia di diplomati che sono disoccupati, mentre continuiamo a importare dall’Africa forza lavoro non qualificata per svolgere lavori che non esistono. Oggi i giovani italiani non trovano spazio nemmeno nelle squadre giovanili, che sono quasi interamente composte da stranieri: lo stesso fenomeno a cui assistiamo nelle scuole, dove ci sono classi composte in prevalenza da stranieri.
Il Palazzo del calcio non si cura di tutto questo, ma guarda con invidia al calcio inglese, che ha copiato il modello italiano e ha saputo attirare emiri arabi e fondi di investimento. I risultati sono stati in gran parte identici: vivai soffocati e nazionale in crisi. La differenza sta invece nei risultati sportivi dei top team, che si sono affermati a livello internazionale ingaggiando molti dei migliori calciatori e dei migliori allenatori al mondo. Il Palazzo italiano del calcio continua ad arrovellarsi intorno al prezzo dei diritti televisivi, che garantisce ai club inglesi incassi fantascientifici, senza rendersi conto che quel modello di calcio è già superato. Il primo a rendersene conto fu Roberto Baggio, al quale nel 2010 Abete e Ulivieri conferirono l'incarico di supervisore del settore giovanile della FIGC. Nelle intenzioni della mafia pallonara, doveva essere solo un uomo immagine da sfoggiare nelle conferenze stampa e nelle occasioni "mondane" indette dalla UEFA e dalla FIFA. L'ex Golden boy del calcio italiano invece aveva preso seriamente il suo incarico: così seriamente che per 2 anni ha girato l'Europa per studiare e prendere appunti.
Mentre dalle nostre parti si sospirava guardando con invidia agli stadi gioiello che si sono costruiti in Germania per il mondiale del 2006 e si lodava la naturalizzazione di turchi, slavi e africani nella nazionale tedesca, Baggio annotava cose molto diverse nel suo rapporto. Per operare nel calcio professionistico tedesco non basta un tesserino come in Italia: il classico foglio di carta, spesso rilasciato per raccomandazione. In Germania si sono costruite alcune dozzine di centri federali sul modello della nostra Coverciano, dove si tengono continuamente corsi di aggiornamento per i dirigenti federali, i tecnici, i preparatori atletici, i medici e i massaggiatori. Chi non si tiene aggiornato e non è allineato con i rigidi standard della Federazione viene fatto fuori. Sono questi centri federali che hanno la supervisione di tutti i vivai del calcio tedesco: i club che non si adeguano perdono i contributi federali. Così dai vivai alle nazionali giovanili e dalle nazionali giovanili ai vivai c'è un continuo turn over di personale altamente qualificato che lavora con le stesse metodologie, curando con teutonica precisione ogni aspetto della formazione dei calciatori. Dopo una lunga gavetta emergono infine gli elementi migliori a livello di staff tecnico, atletico, sanitario e anche, ovviamente, i migliori calciatori: tutta gente che si conosce da anni e che ha già lavorato insieme. I risultati si vedono: dopo la débâcle del mondiale del 1994 la Germania avviò una serie di riforme che l'hanno portata ai vertici del calcio mondiale dodici anni più tardi: semifinalista ai mondiali del 2006 e del 2010, vincitrice il mondiale nel 2014. Quello tedesco non solo è un modello vincente, ma è anche un modello economicamente sostenibile nel tempo. Il Belgio ha adottato con qualche anno di ritardo i metodi tedeschi e questo ha prodotto una generazione di fenomeni che nella storia del calcio belga non ha precedenti: Hazard, Nangolan, Wistel, Fellaini, Lukaku.
In Italia si persevera diabolicamente nel tradizionale modello di calcio mecenatistico pur avendo perso da parecchi anni i suoi mecenati. Fino alla metà degli anni Novanta la spina dorsale del calcio italiano era il vivaio. I club di Serie A potevano tesserare solo 3 stranieri ciascuno (2 in Serie B) e da loro ci si aspettava che facessero la differenza in campo. Poi arrivò l'apertura indiscriminata delle frontiere. I primi ad approfittarne furono i top team, che importarono calciatori di buon livello e di esperienza a prezzi invitanti. I club di provincia andarono immediatamente in difficoltà, perché la più importante voce dei loro bilanci era la vendita dei giovani più promettenti ai club maggiori. Questi club si adeguarono rapidamente iniziando a importare in quantità industriale giovani africani, slavi e sudamericani: tutti giocatori tecnicamente scarsi, tatticamente immaturi, ma forti fisicamente e già pronti a esordire nel calcio professionistico. Così abbiamo assistito a un'invasione di calciatori stranieri scarsi; e se per sbaglio uno tra loro emergeva, il club lo vendeva all'estero, dove pagavano meglio.
Tutto ciò accadeva e accade tuttora perché con poche decine di migliaia di euro si compra una mezza dozzina di giovanotti africani, mentre allevare un campioncino in casa costa caro. Emblematico è il caso del sedicenne Pietro Pellegri del Genoa, che la scorsa estate fu sul punto di trasferirsi all'Inter per 10 milioni di euro e altrettanti di bonus: alla fine ad Appiano Gentile preferirono investire quella cifra sul terzino Dalbert, che nemmeno è titolare fisso. Si potrebbero citare altri esempi. Mi viene in mente Mansour, nato a Reggio Emilia e quindi potenziale giocatore della nazionale di domani: nel 2015 entrava stabilmente nella prima squadra del Milan e il quotidiano inglese The Guardian lo inseriva nella lista dei 50 migliori under 16 al mondo. Sembrerebbe l'inizio di una promettente carriera e invece no: l'anno dopo il Milan lo vendeva al Siviglia per fare cassa. Il ragazzo, che oggi ha 19 anni, gioca nel campionato olandese e veste la maglia della nazionale marocchina: come dargli torto dopo che è stato scaricato dal calcio italiano? La gestione discutibile di questo campioncino a chi ha giovato, al calcio italiano o a quello marocchino? Parliamo di Simone Scuffet: titolare all'Udinese a 17 anni, convocato in nazionale a 18, finisce a fare la riserva di Karnezīs (comprato per 180.000 euro). Risultato? Karnezis gioca e diventa titolare nella nazionale greca, Scuffet non gioca ed esce dal giro dalla nazionale italiana: chi ci ha guadagnato in tutto questo, il calcio italiano o quello greco? El-Shaarawy, nato a Savona, esordisce in Serie A a sedici anni, esordisce in nazionale a 19 e nel 2012 viene inserito da Don Balòn e The Guardian nelle liste dei più forti under 21 al mondo: il Milan lo vende al Nizza per fare spazio a Niang. Chi ha guadagnato da tutto questo, il calcio italiano o quello senegalese? Mi si può rispondere che Pellegri e Mansour non hanno ancora dimostrato nulla oppure che Scuffet e El-Shaarawy non sono dei fuoriclasse: ma sono forse dei fuoriclasse Dalbert, Karnetiz e Niang?
Se dal 2005 a oggi il calcio italiano non è stato capace di produrre calciatori all'altezza della sua tradizione, è perché il calcio è lo specchio della società italiana: abbiamo decine di migliaia giovani laureati e centinaia di migliaia di diplomati che sono disoccupati, mentre continuiamo a importare dall’Africa forza lavoro non qualificata per svolgere lavori che non esistono. Oggi i giovani italiani non trovano spazio nemmeno nelle squadre giovanili, che sono quasi interamente composte da stranieri: lo stesso fenomeno a cui assistiamo nelle scuole, dove ci sono classi composte in prevalenza da stranieri.
Il Palazzo del calcio non si cura di tutto questo, ma guarda con invidia al calcio inglese, che ha copiato il modello italiano e ha saputo attirare emiri arabi e fondi di investimento. I risultati sono stati in gran parte identici: vivai soffocati e nazionale in crisi. La differenza sta invece nei risultati sportivi dei top team, che si sono affermati a livello internazionale ingaggiando molti dei migliori calciatori e dei migliori allenatori al mondo. Il Palazzo italiano del calcio continua ad arrovellarsi intorno al prezzo dei diritti televisivi, che garantisce ai club inglesi incassi fantascientifici, senza rendersi conto che quel modello di calcio è già superato. Il primo a rendersene conto fu Roberto Baggio, al quale nel 2010 Abete e Ulivieri conferirono l'incarico di supervisore del settore giovanile della FIGC. Nelle intenzioni della mafia pallonara, doveva essere solo un uomo immagine da sfoggiare nelle conferenze stampa e nelle occasioni "mondane" indette dalla UEFA e dalla FIFA. L'ex Golden boy del calcio italiano invece aveva preso seriamente il suo incarico: così seriamente che per 2 anni ha girato l'Europa per studiare e prendere appunti.
Mentre dalle nostre parti si sospirava guardando con invidia agli stadi gioiello che si sono costruiti in Germania per il mondiale del 2006 e si lodava la naturalizzazione di turchi, slavi e africani nella nazionale tedesca, Baggio annotava cose molto diverse nel suo rapporto. Per operare nel calcio professionistico tedesco non basta un tesserino come in Italia: il classico foglio di carta, spesso rilasciato per raccomandazione. In Germania si sono costruite alcune dozzine di centri federali sul modello della nostra Coverciano, dove si tengono continuamente corsi di aggiornamento per i dirigenti federali, i tecnici, i preparatori atletici, i medici e i massaggiatori. Chi non si tiene aggiornato e non è allineato con i rigidi standard della Federazione viene fatto fuori. Sono questi centri federali che hanno la supervisione di tutti i vivai del calcio tedesco: i club che non si adeguano perdono i contributi federali. Così dai vivai alle nazionali giovanili e dalle nazionali giovanili ai vivai c'è un continuo turn over di personale altamente qualificato che lavora con le stesse metodologie, curando con teutonica precisione ogni aspetto della formazione dei calciatori. Dopo una lunga gavetta emergono infine gli elementi migliori a livello di staff tecnico, atletico, sanitario e anche, ovviamente, i migliori calciatori: tutta gente che si conosce da anni e che ha già lavorato insieme. I risultati si vedono: dopo la débâcle del mondiale del 1994 la Germania avviò una serie di riforme che l'hanno portata ai vertici del calcio mondiale dodici anni più tardi: semifinalista ai mondiali del 2006 e del 2010, vincitrice il mondiale nel 2014. Quello tedesco non solo è un modello vincente, ma è anche un modello economicamente sostenibile nel tempo. Il Belgio ha adottato con qualche anno di ritardo i metodi tedeschi e questo ha prodotto una generazione di fenomeni che nella storia del calcio belga non ha precedenti: Hazard, Nangolan, Wistel, Fellaini, Lukaku.
Baggio relazionò anche sulla
Spagna, dove le squadre di club hanno una seconda squadra che milita nei campionati minori (gli equivalenti della Serie B e della Lega Pro italiane). I ragazzi tra i 17 e i 22 anni hanno così l'opportunità di giocare titolari e misurarsi sul campo con professionisti già esperti. Quando un giovane emerge nelle categorie inferiori viene aggregato in prova alla prima squadra e se è all'altezza dei titolari può bruciare le tappe: se si dimostra acerbo non viene bocciato, ma ritorna a giocare nella seconda squadra per maturare. In Spagna è inconcepibile che un giovane talento sia stabilmente confinato in tribuna a guardare i campioni giocare, come accade in Italia. La sorprendente capacità dei giovani di inserirsi tra i campioni
affermati ha una ragione: c'è continuità nei metodi di allenamento, nei moduli
e negli schemi tra prime squadre, seconde squadre e vivai. La continuità è
garantita dal fatto che un’unica società di calcio sovrintende a tutto. Le
seconde squadre rappresentano anche l’occasione per i dirigenti, gli allenatori
e i loro staff di mettersi alla prova nel calcio professionistico dopo aver
fatto la gavetta nelle squadre giovanili. Il sistema descritto da Baggio ha
permesso a un Paese come la Spagna di vincere un mondiale e un europeo nel giro
di 2 anni e di restare ai vertici del calcio mondiale: in precedenza non aveva
mai vinto nulla. Anche a livello di club i risultati sono eccezionali. Mentre la mafia pallonara In Italia si lamenta dei privilegi offerti dal fisco
spagnolo ai calciatori stranieri e dei proventi dei diritti tv della Liga,
il rapporto di Baggio dimostrava che non si era capito nulla dei punti di forza del calcio spagnolo.
In conclusione Baggio propose
alla FIGC di adottare il sistema dei vivai federali tedeschi accoppiato col
sistema spagnolo delle seconde squadre. Ciò provocò la reazione stizzita di
Tavecchio (nel frattempo subentrato ad Abete) che accusò Baggio di essere andato molto oltre il mandato che gli era stato assegnato e che non doveva più
impicciarsi di cose che riguardavano solo il presidente federale (cioè lui).
Ancora più duro fu Ulivieri, che si era arroccato in difesa degli interessi corporativi degli allenatori, soprattutto quelli inadeguati (come era lui). Meno di un anno più tardi (2013) Baggio si dimise, dichiarando che non poteva accettare un mero incarico di
facciata. Demetrio Albertini, uno dei pochi uomini di sport all'interno della Federazione, in un primo momento aveva incoraggiato Baggio ma poi lo ha abbandonato, cedendo alle logiche del Palazzo. Più tardi l'ex regista del Milan comprese che la mafia pallonara era il cancro del calcio e si propose alle elezioni per il ruolo di presidente federale: fu sconfitto dalla solita mafia di Tavecchio, Lotito e Ulivieri. In queste squallide vicende ritroviamo il copione della politica italiana, dove le politiche per il lavoro vengono predisposte da gente che non ha mai lavorato in vita sua e le leggi contro la corruzione vengono deliberate da gente corrotta.
Commenti
Posta un commento